29/12/11

Tradizioni natalizie

Le tradizioni delle feste natalizie a Bocchigliero (cs)
Tratto da: ENOTRIA 1931
di Don Giuseppe Scafoglio 1882  1936


1) La strenna di capodanno ai bambini.-Anche rispetto alle persone che ne godono, le feste natalizie a Bocchigliero sono tre: quelle di Natale vero e propio, per i nati dello stesso tetto; di Capodanno per gli estranei; dell'Epifania per le bestie.
   Il primo dell'anno è giornata di strenna: strina ricevono i bambini della strada più disinvolti, i dipendenti e specialmente i figli, in quella moneta sonante la quale, nell'anno, mai non toccano e che non può essere sostituita dai meno appezzati giocattoli, mancando, del resto, essi sul luogo.
  La strenna, specie tra il popolo, corre senza quella brutta   vecchia intermediaria, detta la Befana.
  Esseri misteriosi e fantastici con carattere più spesso di terribilità che di stupore, a Bocchigliero sono il negromante, la magara (strega), il puppu (fantasma indeterminato), il lupu mannaru (fantastica belva che corre e urla) ai quali -veramente strano- si deve aggiungere il trascurato Patrono, San Nicola, per gli occhi bovini fortemente espressivi di tutt' e due le statue.
 Con essi, ma più di casa, L 'agurìallu o monachìallu, genietto dispettoso per qualche momento, ma sempre caro, perchè foggiato sul carattere irrequieto e mutevole dei bambini di cui è, nelle vacanze dei dispetti, il familiare largitore di ogni più vistoso regalo dell 'anno.
2) E della vigilia ad ogni frotta di cantori. - La strenna, però, è regalo antimeridiano. Di diversa natura, invece, i doni, e diverse le categorie dei richiedenti della sera innanzi. Sono amici e semplici conoscenti, gruppi di ignoti magari, cui la carità non vuol discernere i tratti del viso.
   La tradizione cristiana qui si sarà sovrapposta alla pagana la quale, fra tante pazzesche invenzioni e furfanterie, aveva almeno trovato uno Zeus protettore dei forestieri e dei pellegrini.
   Per quest 'ultimi, quella sera, è sicuro un cestino di frutta ; cui si può aggiungere il vino nuovo e le fritture che vengon raccolte in bisacce a due bocche, di pelo di capra, dai fascioni chiari, che ne variano lo scuro del fondo, ovvero a linee disegnanti scacchi.
   Il dono si fa avanti la porta dove fu cantato ; ma qualche gruppetto di giovinotti più simpatico entrano fino al molto acceso focolare.
   Materia di canto, brutti versacci tradizionali ed altri più brutti dovuti improvvisare. Ad ogni persona che si individua nell'augurio, tocca la materia di un distico ripetuto. Per il capoccia, le finali di esso  saranno patrune (padrone) e cannatune  (boccale). La lingua batte, si potrebbe dire, dove l'ugula duole di arsura, non essendo il vino regalo sicuro come la frutta.
   Per la massaia, patruna si farà rimare con spurtune, anche perchè la lodata si alzerà tra breve, per ritornare con un cesto di fichi che, a Bocchigliero, a dispetto della sua altitudine di circa 900 m. ,mitigata dal Jonio, sono pregiati e abbondanti al par delle mele.
   Se la donna (madre, figlia, nuora, ecc. risentendo alla lontana della tribù, la famiglia) porta nome terminante in ina ,facile è la corrispondenza di un eguale suono, perchè le si augurerà di diventare, nientemeno che regina, non importa se, appena una volta la settimana, può concedersi un pò di carne di pecora o di non meno dura capra.
   Se nei canterini c'è timore che sfumi il beveraggio del vino, non si tarderà ad ammogliare, a gran voce, esso termine, con quello di cantina, la quale ultima parola sarà sostituita dall'altra entrata in festa, come dicono gli ecclesiastici, coi primi vespri, ossia strina, strenna. Ove poi uno degli aedi della serata vanti là dentro, il legame spirituale del battesimo o della confermazione con la massaia, altro sostantivo di fortuna sarà l'appellativo di parrina, padrina, e, per riflesso, pel capo famiglia, quello di parrinu ; buon termine d'attrazione anch'esso,per l'altro di vinu ; e  "qui potest capere, capiat ", sperando ripeteranno a lor modo, con S.Matteo, il quale, con questa battuta, si sbarazza del fastidio di aver diviso in categorie gli eunuchi.
   Fìgliu poi si accoppierà con jigliu, giglio ; sùoru, sorella, con trisùoru, tesoro ; nanna nonna, con manna, voce di ben noto liquido di pianta silana, non che liquido miracoloso delle ossa del predetto Santo Patrono : e piglierà il compagno dal morente capuddannu, ( capodanno ), nannu, nonno.
   Se poi il focolare ha il privilegio di vantare nientemeno che la " sacra fossa " - direbbe Omero - di un cavaliere, personalità di lungo metraggio, per un paesello, che tutti inchinano e temono, i versi stereotipati finiranno come nonpotrebbero meglio nel desiserio dei girovaghi, perchè al gran titolo di cavalieri si metterà a servizio di rima, una voce delle più idolatrate, bicchìeri :


                                  'M menzu ssa casa c' è 'nu bicchìeri
                                  brìnnisi fazzu a llu signor cavalieri ;


che vuol dire : in mezzo a questa casa c' è un bicchiere, brindisi faccio al signor cavaliere.
   Se la minuscola tribù è estesa fino a contare anche un chierico o prete, ( essendo raro in Calabria il prete solo, anche perchè costretto, pei servizi domestici, a non concedersi Perpetua, nome familiare, perciò, ai soli lettori dei " Promessi Sposi " ) un' assonanza, comunque stentata, si troverà, tirando in ballo paniere o panaru, il quale cercherà il corrispondente alla rozza musa, nel parolone cardinale.
   Pure lo scrivente, se ne va a casa in detti giorni, non corre pericolo di esser dimenticato, benchè in mezzo a famiglia piuttosto numerosa. Per lui, del facile distico rimerà a capello, don Peppinu, sempre con quel benedetto vinu ; mentre i vogliosi di apparire meglio informati delle occupazioni del festeggiato, cambieranno paragone anteponendo alla voce del liquido rubino o del meno apprezzato bianco, qualcosa di solido e astratto :


                                 'M mìenzu ssa casa c' è 'nu piatto 'è bon core,
                                 brìnnisi fazzu a don Perrinu 'u prufessore. 


I cucupi. -Il canto però, non si spande solo ; essendo accompagnato da un suono tutto caratteristico, che un improvvisato e facile strumento sprigiona. Basta possedere una marmitta, una boìte, un recipiebte qualsiasi vuoto, coperto da una pelle di tamburo bagnata di fresco e distesa e lagata intorno alla bocca, nel centro della quale stia ritta una cannuccia senza nodi, per estremità avvolta, anch'essa, nel mezzo della pelle cui sia non meno saldamente legata.
   Ora facendo andare su e giù la bacchetta con la destra umida di sputo e chiusa attorno a essa, e tenendo ben fermo sotto l'ascella sinistra il grottesco apparecchio, si ricava cupo come la sovrastante notte, monotono e burlesco, un suono.
   dall'aggettivo cupu o vuoto, una parola onomatopeica lo designa a Bocchigliero col nome di cupicupi, e in Campania con quello di putipù. Sul contrafforte dell'Arenzana, a Bocchigliero, cioè si adopera nelle sole feste natalizie o meglio, col calar delle tenebre della vigilia di capodanno; ricorrenza, tra le altre, più animata.
   Porta quel coso, il vantaggio della pronta costruzione e della nessuna spesa anche da parte dei bambini che, quanto a recipiente,se ne forniscono, asportando i bricchi alle cucine.
   Potrebbe servire la pastorale cornamusa; ma questa ha funzioni assegnate nelle ninne nanne e negli ozi degli idilli campestri;mentre per la ricorrenza chiassosa di cui è parola, un apparecchio grottesco prima a vedere, poi a sentire, è meglio indicato.
   Nell'oscurità del freddo solstizio, in serate le più adatte a racconti di millenaria canizie, altri dolci, altri spaventosi, con la fantasia piena di agurìalli, monachìelli e lupi mannari, col ricordo di magi misteriosi di più misteriose contrade, il cavernoso rumore ora più ora meno forte, ma sempre monotono e spezzato, quasi a burleschi singulti, e inteso appena una volta ogni tredici lune, con comitive egualmente annuali, e col canto a ritmo lento e melodico però, sostituisce senza rimpianti quanto di meglio non si sente e vede; sebbene, con le frotte più civili, comincia a essere scacciato da qualche violino, mandolino e chitarra francese in accompagnamento.
   La comitiva meglio ospitata.- Dopo cena giunge invece, qualche frotta che merita o pretende maggiori attenzioni. Le altre comitive furono contentate piuttosto in fretta; con l'ultima, si è più espansivi, giacchè con essa vorrà indugiare la famiglia, la quale, non avvezza a perder tempo utile di questa buona occasione, nell'ambito caldo e festante della civitas domestica, fuori della quale è l'orrido della notte lunga nella sua prima vigilia.
   Per questi amici o buontemponi di sesso esclusivamente maschile, si porta innanzi quanto di meglio si possiede; chè l'occasione, se si presta a gradire gli estranei, anche ai padroni offre di ostentare la propria agiatezza.
   Col buon cuore per gli altri, secondo il detto :
                                     Pe l 'amici jette la casa  ' n terra
                                    ( per gli amici getta a terra la casa, dilapida),
e il forte amor proprio, solleticato a ben figurare, vengono avanti le migliori ceste di frutta di alta collina che, nella giornata furon sottratte alla leggera protezione delle felci avvizzite e polverose dello stramatu (solaio) ; e poi, i dolci paesani di casa propria, tra cui quello a basa di miele d'uva, accennato nel penultimo articolo, e i torroni di larga e piatta scatola di Reggio e della Sicilia ; dopo avere,  però, dato esca all'arsura con le non meno riposte sopprassate, gareggianti in grossezza di lacrime col vicino granello bruno e forte del torrido tropico, il quale vi fu sparso abbondante e intero ;e serbando alle esplosioni di meraviglia e alle frequenti oscillazione dell'ugola il capeccùollu, (in Romagna detto coppa), che si ammucchia, in dischi rosati e carichi di intenso profumo ; e il massiccio prosciutto, infine, che la generosità ospitale presenta spesso omericamente intero per la consolazione di vederlo attaccato nella sua stessa base, e poi affondato nel vino ardente .
   Con le visite rare, la cordialità è in proporzione. Il galateo, quanto a visite nelle famiglie, è chiaro :
                                   Si vu' sedire duve sede issu,
                                  (se vuoi sedere dove siede lui)
                                   ' U ' nci jire allu spissu.
                                   (non andarci spesso)
   E la comitiva che questo sa ed à osservato nell'anno, per la letizia raggiante su tutti i volti, il grosso e chiassoso numero che meglio affranca ad ogni residuo di soggezione, e la stagione e l'ora tenenti bordone, non perde davvero tempo a rinfrancar gli spiriti con cibi e bevande prima, a non voler restare in cervello poi.
   A serata conclusa, infatti, diventano otri capaci ; rubicondi sguatteri che abbiano soffiato sul fuoco, secondo il motto che s'indirizza a una spugna di bevitore :
                                    Pari ca ha ' jujatu 'u fuocu!
                                    (sembra che tu abbia soffiato sul fuoco)
automi così 'ntorganati (empiti) e 'ntatarati (pieni di feccia) ; in possesso inalienabile di certe spatrunate (sbornie) che, per lo sbilancio delle some, li fan procedere verso le rispettive dimore, con la balbuzie scesa, diciamo così, dalla lingua  alle gambe in modo da scambiarli per un gruppo di torri pendenti.
   5.  Il pranzo e il tripudio della vigilia di Natale a sera.
Ultima delle tre, l'Epifania, la seconda festa intima della famiglia la quale, volentieri, vi associa i suoi schiavi e fidi compagni di presepe.
   E la festa, più che il giorno dell'apparizione del signore, cade la vigilia a sera, come per il Natale.
 Mentre nell' Italia settendrionale, la vigilia di Natale sguscia monotona e incolore come una qualsiasi serata d'inverno, in
                               "quel corno d 'Ausonia, che s' imborga
                                 Di Bari, di Gaeta e di Crotona,
                                 Da dove Tronto e Verde in mare sgorga",
è tutt' altro sentire.
   Senza sconfinar dalle prescrizioni della Chiesa, la sera della vigilia è solennissima per tripudio di cuori e per imbottimento dell' epa.
   A mezzodì si cenò, parcamente sulle once rituali; ma, sin dalla mattinata,e , con accellerata lena nel pomeriggio, si fu, più o meno tutti in faccende per le due ecatombidella tavola del ventiquattro a sera e del mezzo corso solare del dì seguente.
   Avvine ciò per maggiore simpatia alla vigilia, secucente più della festa, secondo il gusto leopardiano? O è abitudine di popolazioni già governate dalle tre effe borboniche, di cui la prima e seconda sono sigle di festa e farina?
   La spiegazione è ineve quest'altra, forse, che il culto intenso del focolare, più che mai, in occasioni tanto solenni, concilia gli animi ad un'esplosione d'intima gioia tra le sue tre volte sante pareti, rischiarate dalle alte lingue della buona e bella legna, cercata talora personalmente nel proprio bosco, e fatte liete dal supersite Lare, l'Agurìellu o Monachìellu, sul quale si solleva,  vincitore, Gesù, Lui pure bambino.
   La sera del ventiquattro, dunque, si mangia e si beve, come suol dirsi, a trippa strazzata, da lacerarne il ventricolo; e poi, si torna a mangiucchiare e a sorseggiare, giocando a tavola anche, provocando fragori di petardi e di fuciferre o cacafùochi (vecchi fucili) fino al suono dei sacri bronzi i quali, avvertono che, a mezza notte in punto, occorre lasciar digiuno il corpo a quanti, passeranno, poco dopo, al cibo della mistica mensa.
  6. E il tripudio e le leggende di quella dell' Epifania.
Similmente nell'Epifania, ore più belle, quella della sera innanzi, anche per il fatto che gli uomini, meno gravati da cure o frenati nel girovagare, restan coi propri in più lunga dimora, non soffrendo queste adunate le abituali assenze di nessun componente, proprio come la messa convertuale cui deve assistere tutta una comunità, ogni mattina.
   Bella e gentile la serata del 5 gennaio, per il senso di pietà che accosta più del consueto, i padroni alle proprie bestie, remunerative ogni giorno e buone : il bue col giro degli occhi pazienti e la forza dei muscoli, per esagerazione di bontà, portati fino alle corna; l'asinello adatto non sai se più alla soma del peso o a quello delle bastonate ; la gallina largitrice di attesi botticini di bianco e di rosso, in ricambio del pugno di granoturco gettatole in anticipo ; il cane infamato per un' ingordigia emula, se non minore, di quella dell'uomo, suo padrone, dal quale nemmeno i crampi per fame, riescono ad allontanare ; il gatto per l'attaccamento alla casa, anche se fraintende a crederla tutta sua. Buon diavoli tutti, tranne nella loro notte privilegiata di cui si avvantaggiano senza riserve ad essi nocive.
   Se l'avarizia altrui, anche in quella solenne ricorrenza, non tien conto dello scrupoloso servizio annuale prestato, con offerte di cibo scelto e abbondante, scioperano e diventano incendiari o spartachiani. Ripresa, magicamente la natura selvaggia di cui si spogliarono a tutto beneficio dell'uomo, sgroppano fin l'ultimo rimasuglio di domesticità, e, sollevati all'altezza degli umani nel dono di improvvisa chiara favella, - esiziale agli uomini ascoltare - concertano l'imminente morte dei tiranni.
   E perchè il gran diritto di quelle ore contate non scada, ne profittano per quello che di meglio san fare : un viaggio nelle selve per apprestare, pel mattino seguente, - a sterminio di tutta la famiglia - gli assi occorrenti dei quali si caricheranno in quella notte doppiamente nera.
   Sarà, intanto, per la schiena di tutti quella fatica? Si capiscono l'asino e il bue, nati a quei trasporti ; si posson comprendere anche i lanigeri animali minori i quali, se avvinti a due e a tre, come quelli dell'uccellato Polifemo, posson cavarsela per le assi leggiere dei bambini ; ma, come intendere, fuori del pollaio e della cucina, l'utilità dei piccoli compagni, del gallo, per esempio?
   Se pensiamo, però, a Tirteo che, pur minorato, valeva benel'oplite dorico più gagliardo, il dubbio s'acquieta.
   I padroni tirchi, al vaglio di tanto pericolo,piegano il capo accostandosi con colme misure e lieto volto,per accingersi dopo, alla più lieta fatica della propria nutrizione o satollamento che sia, non senza ricordarsi, negli allegri parlari, degli schiavi di casa.
   Come in agosto e in novembre scendono dal cielo piogge di stelle filanti, la sera del 5 gennaio sono i focolari caldi e affollati che mandano in senso inverso i guizzi delle sbrigliate fantasie, in quanto le famiglie ci tengono a lasciare nell'invisibile libro dei ricordi, la buona memoria dell'occasione fuggente.
   E' la sera dei piccini in particolare, a cui mpùnnanu u pane ( inzuppano il pane) volentieri anche gli adulti. Di solito è il più vecchio a esser creduto.
   Per venire alla conclusione che il bue e l'asinello fecero quanto mai opportuna compagnia al Re del mondo umiliato nel presepe, comincia col ricordare, a sua volta, l'avo il quale 
                                       ....nel parlar soleva inducere
                                       i tempi antichi, quando i buoi parlavano
                                       chè ' l Ciel più grande allor solea producere.
 E' la festa dei desideri inappagabili che, sotto la guida della speranza, dea necessaria, si vogliono vedere in un sogno ad occhi aperti. I corsi d'acqua i quali, accessibili a tutti, precipitano per inalterata vicenda, dai dirupati recessi alle ampie pianure, si spassano, le folle di sognare, una sera nell'anno, cangiati per opera d'incanto, nei liquidi necessari e costosi : l'olio, il latte, il vino, il miele :altrettanto dicasi delle vigne nel gran pavese di una seconda vendemmia, e del pane, per cui l'umanità ingaggia battaglie.
   Questo vitale nutrimento giornaliero, nella notte dei prodigi, lavorano le più affusolate e delicate mani di eteree fanciulle, lassù, sopra le nuvole a cumuli bianchi. Ma la località privilegiata è, per quella volta, anche in terra e così vicina, che, allontanandosi di qualche lega, con quel freddo cane, se ne può aspirare la fragranza e indovinare l'oro del colore e il suono della freschezza.
   Che più? I dami coraggiosi possono andare a intrecciar dolci nodi di durevole amore con quelle gentili creature.
   Si sogna oggi in Calabria e fuori; si sognò con eguale avidità decine e decine di secoli dietro. Il millantatore dei Turiopersi rappresentava comicamente la strordinaria fertilità della terra di Turii, grazie al Crati fluitante grossi pani che la corrente - oh! meraviglia! - impastava da sè ; e gli faceva pendant il Sibari, con rigurgitanti rivoli di seppie arrosto, acciughe, gamberi, fritti, umidi, salsicce : cuccagna fatta più vasta dall'etere generoso che lasciava cadere non solo intorno e non più lontano dai piedi, ma in bocca, arrosti e pan buffetto.
   O pane dalle millanta battaglie, che col vino riempite di voi le mense domestiche e sacerdotali, se veniste modicamente abbondanti per davvero e per tutti !
  






















25/12/11

Natale 2011

                                La redazione di Bocchigliero Oltre, augura un sereno e felice Natale.

15/12/11

L 'ACCIDIA 7° di Leonardo Mazza da Bocchigliero

Questo è l'ultimo dei vizi capitali di Leonardo Mazza, abbiamo voluto pubblicarli, per far conoscere a tanti, ma soprattutto ai bocchiglieresi questo personaggio straordinario che nel 1800 scriveva in questo modo.
Buona lettura.

 
   Accidia  

Ultimo a dir dei sette capitali
   Vizii, che in questo di miseria albergo
   Ancora infetta il cuore dei mortali,
Accidia è desso, a cui non forma usbergo
   Della solerzia la virtude attiva,
   Onde i corifei suoi nel fango immergo.
E' l 'alma di costor di vita priva,
   O quale pianta a vegetar sol nata,
   All 'impulso del senso si ravviva.
E' un alma accidiosa al mal niegata,
   Ed è per fare il ben 'ella incapace,
   Onde nell 'ozio vive abbandonata.
Sia che si freme in guerra, o gode in pace
   Poco sen cale, dall 'accidia infetto,
   Spirito codardo a nulla far capace ;
Della virtù non sent 'egli l 'affetto,
   Nè il vizio abborre ancora, onde un macigno,
   Di vita privo, rassomiglia il petto.
Drizza lo sguardo, ahimè ! con viso arcigno
   Verso gli onesti a fare il bene intenti,
   Ed i codardi poi guarda benigno.
Sempre nell 'ozio scorrono i momenti
   Di queste accidiose alme codarde
   Prive di duol di speme, e di contenti
D 'accidioso in petto amor non arde
   Di gloria onesta, che fa l 'uomo ardito,
   E spinge alla virtù l 'alme infingarde.
A lui nel nulla immerso ed avvilito,
   " Di te memoria non avrò giammai ! "
   Scrive la Fama coll 'eterno dito:
S 'eclisseranno della vita i rai,
   E su la tomba tenebrosa e muta
   Il disprezzo e l 'oblio da tutti avrai.
Accidia ogni voler dell 'uomo attuta,
   E a lui toglindo il cuore, e la ragione,
   In insensata pianta lo trasmuta.
Ei privo e di pensiero, d' azione
   Vive qual bruto a vegetar sol nato,
   E all 'ombra d 'ignoranza andar carpone,
Vedi quel Prence, che sul trono aurato
   Altier seduto, sonnacchioso il freno
   Del suo governo ai confidenti ha dato?
Ed ei di un ozio vergognoso in seno
   Vive, qual uom, cui nulla cura preme,
   Onde il tempo per lui scorrer sereno?
In lui germoglia dell 'accidia il seme;
   Sicchè dall 'ozio vinto, e non curanza
   Egli a sè stesso è di gran peso, e geme.
Spesso di accidia senton la possanza
   Pigri Ministri e sordi Magistrati
   Grandi soltanto in ostentar baldanza.
Ecco li veggio sul Divan sdraiati
   Fumar di Avana i sigari odorosi,
   E degli oppressi non curare i piati.
E dall 'accidia fatti sonnacchiosi
   Molti Prelati veggio, e sacerdoti,
   Soltanto in arricchir fatti bramosi :
Della pigrizia fatti, ahimè ! devoti
   Lascian di Dio l 'altare in abbandono,
   E volgon sempre al Nulla i loro voti.
Da questo vizio ancora infetti sono
   Dei Frati immersi in odorosa broda,
   Di popolar pietà funesto dono !
Chi mai di questi la infingarda loda
   Vita, che inutil scorre in questa terra
   Ed all 'infamia poscia si rannoda?
V 'ha chi dall 'ozio vinto si rinserra
   Nei sacri chiostri onde menar la vita
   Luingi dal mondo, e con sè stesso in guerra.
Sicchè una ciurma inutile stordita,
   Veggiam di frati ed eremiti e suore,
   Solo nell 'ozio immersa ed avvilita .
Questi codardi, che non hanno cuore,
   Hanno obliato, che il figliuol di Dio
   Facendo il bene in su la croce muore.
Chi per oprar non sente in cuor desio,
   E volge intorono timorso il guardo,
   Degno è soltanto dell 'etern 'oblio
 V 'è chi si avanza poi con passo tardo
   Nell 'angusto sentier della virtude:
   Ove non giunge mai cuore infingardo.
E con l 'ipocrisia il volgo illude
   Quando lo vede fare il collo torto,
   Falso segnal di chi pietà non chiude.
Quell 'avvocato, che nell 'ozio assorto,
   Lasciando i libri polverosi e muti,
   Nella pigrizia trova il suo conforto,
Vede i clienti suoi mesti abbattuti
   Piatire invano, e dimandar difesa,
   Quando i lor dritti veggono perduti ;
Figlio di accidia è desso, al quale pesa
   Leggere i fogli dell 'umano dritto,
   Del  jus delle genti, o della Chiesa.
Ond 'ei di Modestin sprezza lo scritto
   Di Paolo, di Pomponio, egli non cura,
   E il Codice osservar tiene a delitto ;
Sicchè del suo cliente la sventura
   Poco gli preme, e tristo l 'abbandona
   Gemente in fondo di prigione oscura,
E l 'ignorante popolo canzona
   Quel verboso dottor di medicina
   Che il tutto sprezza e vive alla carlona .
Onesto adorator di Libitina
   Vende sue ciarle a stupida plebaglia
   Nei trivii, e nei quadrivii ogni mattina .
A Galieno, o Ippocrate si agguaglia,
   E disprezzando i suoi colleghi ei tenta
   Far che la fama sua nel Cielo saglia
Vana lusinga !Non chi gloria ostenta,
   E' degno della gloria, e non è dotto
   Chi solo al volgo il suo saper comenta .
Solo nell 'ozio viv 'egli corrotto,
   E disdegnando i libri, a tutti mostra
   Esser da impuro vizio il cor sedotto .
Quindi, ( sventura della stirpe nostra ! )
   Ognun d 'innanzi a bestia petulante,
   Onde farsi scannar la fronte prostra .
Un farmacista pigro ed arrogante
   E' un braccio del dottor, onde con esso
   Mandare all 'Orco il popolo ignorante .
Dalla pigrizi 'ancor veggiam 'oppresso
   Quell 'indolente stupido notaio,
   Inutile pel mondo, e per sè stesso.
Arruginito ei tiene il calamaio,
   E non facendo un istrumento all 'anno,
   Solo dell 'ozio egli è maestro ed aio.
Lungo le vie girovagando vanno
   Quegl 'insensati giovani studenti,
   Cui son di peso i libri, eppur di affanno.
Spensierati li veggio, ed insolenti
   Fare la corte alle bellezze infide
   Di giovinette scaltre, seducenti.
Ognun di questi del maestro ride,
   Sprezza lo studio come inutil cosa ;
   E leggi e medicina egli deride.
Nell 'ozio egli soltanto si riposa,
   E caccia, fumo e donne da bordello
   Sono i pensieri dell 'alma accidiosa,
Ahi serva Italia di dolore ostello !
   Vedi, l 'accidia i figli tuoi consuma,
   E invan li desti a glorioso appello !
Dove ne andàro i tempi del Re Numa !
   Dei Fabii, dei Camilli, e Scipioni?
   Disprezzator della tedesca bruma?
Dove gli Ortenzii, i Giulii, Ciceroni?
   I Ludovici ; e Pellici, gli Alfieri?
   Dove i Parini, i Danti, e i Goldoni?
Son già mutati i tempi, ed i pensieri !
   Inerzia è sol di noi crudo martìro :
   E il genio è spento degli Eroi primieri.
Non più di gloria in cor sentiam desiro ;
   Solo viviam di grandi ricordanze,
   Guardando i tempi, che per noi spariro.
Oh d 'alme vili stupide jattanza !
   Chè giova ricordar merti degli avi,
   Se i nostri merti son cieche ingoranze?
I nostri artisti ancor son fatt 'ignavi,
   Onde li veggio inerti, e vagabondi
   Volgere al Nulla gl 'intelletti pravi :
E di fanciulle i lupanari immondi
   Pieni veggiam, per far turpe mercato
   Dell 'onestà con att 'inverecondi.
Che più dirò? Dall 'ozio ogni peccato !
   Perciò quegli, che a lui la fronte abbassa
   Porta d 'infamie il cor sempre macchiato :
Onde di lui diciam : Guardalo e passa !

08/12/11

Lettera aperta a Gesù Bambino ........tanti anni fà


Caro Gesù Bambino, millenovecentosettantasei anni or sono, nello scendere per la prima volta sulla terra, hai portato un messaggio "Gloria nel più alto dei Cieli e pace agli uomini di buona volontà".
Sei voluto nascere in una grotta, forse per far capire agli uomini che la migliore delle virtù è la modestia, ormai anacronistica nel contesto del vivere umano, così come l'onestà, la giustizia, la legalità, la coscienza, la bontà, relegata nell'angolo più polveroso dei ricordi del passato.
Ma perchè non mandi la Stella che ha guidato i Re Magi alla Grotta della umiltà, ad illuminare le menti di quanti, seguendo la scia del guadagno per il guadagno e del facile arricchimento, hanno  perduto la strada della Grotta e imboccata quella del danaro.
E non dirmi che quella stella ha perduto la sua luce per i troppi anni che sono passati, perchè per uscire dal buio in cui viviamo, ne basta una che dia luce quanto una candela.
Così che, i presidenti vedano che sono troppe le corone ed i telegrammi inoltrati alle famiglie di chi con troppa facilità cade. Così che, i politici, i sindacalisti, i governanti, i responsabili della cosa pubblica, riescano a vedere il caos che hanno creato, le storture che ci circondano, l'abulia che regna padrona in ogni angolo del nostro Paese, il lassismo, il permissivismo, la prepotenza in ogni ceto ed in ogni classe, che sono divendati l'abito mentale dei più, un punto di merito, la punta di diamante per essere Qualcuno.
Così che, chi vuole sanare, o finge di farlo, l'economia dello Stato veda che è impossibile farlo col solo sacrificio delle classi meno abbienti, mentre nulla si chiede, o quasi, a chi ha.
Ricordando, evidentemente, il Padula il quale diceva:" Chi ha,è,e chi non ha, non è".
E dimenticano che non è stato il popolo minuto a rosicchiare lo Stivale, con preferenza per il Piede, perchè nudo ed indifeso da quando, per convenienza è stato attaccato allo Stivale.
Così che, questo vivaio di braccia e di voti a poco prezzo, che è il Sud, veda il tradimento continuo che si stà perpetranto sulla sua pelle da oltre un secolo e a tutti i governi che si sono succeduti, fino a questo attuale.
Così che veda ancora questa generosa gente di Calabria, che a più viene negata la bellezza delle loro montagne, dei loro laghi limpidi, dei loro mari azzurri, per andare fuori a cercare lavoro, umiliazioni e nostalgia, come se nella loro terra non ci fosse spazio sufficiente per costruire posti di lavoro e le possibilità naturali per esportare i manufatti,ma solo quello per costruire centrali elettriche la cui energia come le braccia, serve ad altri; o come se non fosse stata questa, "terra urbertosa", la patria maggiore dei greci: La Magna Grecia.
Così che, gli Uomini di Buona Volontà a cui va il mio saluto ed il mio augurio sincero, possano vedere chiaramente e sicura la strada da percorrere per arrivare al Faro della Grotta, e da questa continuare il cammino intrapreso.
                               Emilio Benincasa
Questo è un pezzo di un giornale che veniva pubblicato a Cosenza e impaginato a Bocchigliero e si chiamava  "L'informatore Calabrese". Ci è sembrato ancora attuale, e presto pubblicherermo altri pezzi altrettanto attuali. Questo è tratto da: Anno II N°1 Gennaio 1977.

04/12/11

Corruzione.......e Oltre


Rosa canina silana
Sembrava che dopo tangentopoli, l'Italia potesse vivere un periodo più tranquillo, invece così non è stato, pare che, la corruzione continua, da Milano a Reggio Calabria , gli ultimi avvenimenti hanno evidenziato come la politica è in affari con la malavita organizzata e di quella con i colletti bianchi. In Calabria come in Lombardia, molti politici indagati e incarcerati, in Calabria anche avvocati e notai. La corruzione imperversa  là dove ci sono interessi economici forti, soldi soldi e ancora soldi. Pare, la notizia è di questa mattina, che la moglie di un giudice di Reggio Calabria, nominata responsabile della asp di Vibo Valentia, debba restituire i soldi, bene ma come poter porre freno alla corruzione dilagante da nord a sud?? questa è una domanda alla quale,noi, non sappiamo dare risposta. Un avvocato di Palmi (rc), tale  Vincenzo Minasi, si vantava di conoscere tutte le famiglie mafiose della piana di Gioia Tauro e non solo, si vantava di aver fatto chiudere una clinica a Crotone per poter fare una tac alla moglie, questo grazie alle sue conoscenze con famiglie mafiose del crotonese, ciò è palese che il denaro non è sufficiente, ma ci vuole potere, l'uomo ha necessità di potere, di forza nel penetrare, anche se tutto è stato penetrato, infatti il cardinale Bertone, mentre ritirava il premio Giovanni  Paolo II a Reggio Calabria, non risponde, quando le viene chiesto come mai la chiesa ha dato una onorificenza di cavaliere a un mafioso calabrese, risponde dicendo, che ha fiducia nelle istituzioni dello stato e noi aggiungiamo quando queste non sono corrotte.


02/12/11

2 Dicembre 1927.....Auguri Mamma!..

Oggi 2 Dicembre 2011, tu mamma compi 84 anni, cosa augurarti, felici gli anni avvenire, e che tu possa viverli in serenità, pace e salute. Ma volevo approfittare di questa occasione per ringraziarti per tutto quello che hai fatto per noi... mi ricordo quando al mattino ci svegliavi, a Parma ,per andare a scuola e tu, libera, potevi ricamare i tuoi meravigliosi maglioni d'ancora, che andavano anche in America. Avevano un difetto quei meravigliosi maglioni; odoravano di frittura, per che tu, durante una pausa correvi in cucina per preparare la cena, e spesso friggevi. Poi al mercato di via M. d'Azeglio, a Parma, ti chiamavano "la napoletana" o Anna Magnani. ricordi bellissimi con una mamma meravigliosa, la più bella del mondo.  Grazie ancora mamma!!!!!                                                                                                     

30/11/11

Grazie!

Ci ha srcitto una insegnante italiana che insegna ad Oxford,  http://www.ox.ac.uk/ bellissimo, ma la cosa per la quale ci ha scritto ci riempie tutti di gioia, di una gioia incontenibile, ed è per questo che vogliamo condividerla con voi. L'insegnante ci ha chiesto se può farci delle domande inerenti il dialetto calabrese, e vorrebbe due copie del sostantivo dialettale calabrese che stiamo per pubblicare. Questi quaderni, sul sostantivo calabrese di Giuseppe Scafoglio, sono stati pubblicati moltissimi anni fa, il primo nel 1928 e l'ultimo, sono quattro, nel 1931, siamo riusciti a recuperarli tutti e a pubblicarli insieme, e ancora interessano. Ma torniamo all'insegnante di Oxford, che noi ringraziamo pubblicamente e siamo a completa disposizione, dell'Università di Oxford, come lo siamo stati con l'Università di Salerno. La cultura e la ricerca non hanno confini!. Siamo fieri ed orgogliosi di queste cose, uno dei motivi fondanti di questo blog, per le nostre radici, per la valorizzazione delle intelligenze che sono state dimenticate e la continua ricerca delle propie radici per essere certi da dove veniamo, e quindi certi di sapere dove andiamo.

28/11/11

L' INVIDIA 6° di Leonardo Mazza

Abbiamo voluto, viste le richieste, continuare a pubblicare i vizi capitali di Leonardo Mazza da Bocchigliero, questi ci auguriamo che presto vengano pubblicati insieme a tutta l'opera del Mazza, che riteniamo un personaggio che deve essere conosciuto.........e Oltre.
Buona lettura.

  L' Invidia

Qual ' orrida infernal Furia, che freme,
   Lividi gli occhi, e scarmigliato il crine
   Ed in sè stessa incrudelendo, geme :
Tale veggiam di triboli e spine :
   Su letto assisa Invidia, che soltanto
   Di bieca altri guardar perverso ha fine,
Ella gioisce allor che in lutto e pianto
   Vede la stirpe umana, e si rattrista
   Quando la vede immersa in gioia e canto .
Onde guardar nel bene altrui, la vista
   Tiene qual Argo, o Linge favolosa :
   Freme se onor grandezze altri acquista .
Chi è mai quegli, che torbida e rugosa
   Mostra la fronte, con sogghigno amaro
   La gira intorno cupa, e sospettosa ?
E' un invido peggior del tristo avaro,
   Che di sè stesso fattosi tiranno,
   Tiene degli altri il ben sempre a discaro .
Figlia nel Ciel del perfido Satanno
   Scese l 'invidia giù nel basso inferno,
   Donde al figiuol dell 'uom recò suo danno .
Bieca sul trono assiso ella il Superno
   Nume guatava, e di furore armata
   Balzar già lo volea dal soglio eterno.
Oh vana impresa ! Dal Signor scacciata
   Giù si travolge rotolando, e seco
   Porta la sua infernal rabbia spietata .
Sul Nifate la veggio assisa un bieco
   Sguardo fissare su la stirpe umana,
   E furibonda dire : Io sarò teco .
Quindi varcò la interminabil vana
   Region del Cielo, e l 'albero fatale
   Tocco restò dalla sua man profana .
Allor gigante su la terra il male
   Stese le braccie, e l 'inesperto Adamo
   Fece la stirpe sua trista e mortale .
Miseri noi ! Che circondati siamo
   Dai vizii di Satan, del male amico,
   A cui d 'impuro cor voti porgiamo .
Per lui, con volto pallido, impudico,
   Venne fra noi l 'invidia, e l 'uman cuore
   Tocco da lei si fè del ben nemico .
Quegli, che vive in mezzo allo splendore
   Di grandi onori, lacerar si sente
   In petto, e mostra in fronte il suo livore,
Quando i germogli di più bassa gente
   Vede inalzati ad onorato seggio .
   Dove non siede mai vile pezzente :
Solingo e malinconico lo veggio
   Morders' il labbro, ed aggrizzare il naso,
   Livido il volto, bieco il guardo, e peggio
Falso principio il cuore umano invaso
   Ha nel presente secolo corrotto,
   In cui spezzato è di Pandora il vaso :
E, che nel seggio degli onor condotto
   Sia quei soltanto, a cui di nobil schiatta
   Blù scorre il sangue, od ignorante o dotto .
E l 'altra gente, che a virtude è fatta,
   Languisca nel disprezzo, e nell 'oblio,
   Siccome belva, che vil fango imbratta .
Stolti che siete ! Stolto ancor desio
   Nutrite in cor, se avete la baldanza
   Credervi figli, oibò ! d 'un altro Dio .
Oh la patrizia, stupida jattanza !
   Credon che sia soltanto la grandezza
   Annessa dei natali all 'arroganza :
E l 'umil plebe, che il patrizio sprezza,
   Nata nel basso, vi si alligni, e mai
   Osi aspirar dei nobili all 'altezza .
Vana lusinga ! Son mutati assai
   Ora i costumi, i tempi, ed è patrizio
   Quei, che virtude non oblia giammai .
E' già sparito delle Coste il vizio ;
   Chè la virtù nobilita i plebei,
   E il nobile corrotto il fa novizio .
Veggiam perversi, invidiosi e rei,
   Quei grandi, che dell 'oro, dell 'argento
   Gl 'idoli han fatto, e gl 'insensati Dei :
Vogliono sempre in vergognoso stento
   Veder la plebe, nei sudori onesta,
   Acciò drizzi su loro il guardo intento .
Vogliono sempre timida, e modesta
   Vederla innanzi ad essa umiliata,
   Acciò non alzi l 'orgogliosa testa .
Sicchè se veggon di costei mutata
   Fortuna, che tramuta li ben vani,
   Paventa di costor l 'alma spietata .
Mutano spesso gli splendor mandani,
   Distribuendo egualmente la luce,
   Che rende sciocchi gl 'intelletti umani .
E' la Fortuna un 'incostante duce,
   Che or nei buoni, or negli avversi eventi
   Prende l 'uomo per mano, e lo conduce .
Quindi veggiamo i Grandi e gli opulenti,
   Oggi sedere nei gemmati scanni,
   E la dimane andar quali pezzenti :
E i poveri, che vivono tra gli affanni
   Di perigliose orribili fatiche,
   Mutano sorte col mutar degli anni .
Son tutte nell 'oblio le schiatte antiche,
   E di Marchesi, Principi, e Baroni,
   Su le torri veggiam nate le ortiche :
Onde di nuove stirpi ecco i Blasoni
   Ecco dal volgo uscir nuova ciurmaglia
   Di Prenci, e Cavalier senza speroni .
Ma che ? Del volgo la grandezza abbaglia,
   Onde i Potenti sprezzatore un riso
   Volgon sovr 'esso ; acciò alto non saglia .
Vedi ; quel vile si abbellisce il viso !
   Quegli si adorna di abiti galanti !
   Dicon tra loro con il cuor sonquiso .
Sicchè diventan perfidi e furfanti ;
   Mossi da invidia pazza, e gelosia,
   Fanno nel bivio, e trivio i petulanti .
E s 'impssess 'ancor questa manìa
   Dei dottorelli, od ignoranti, o vili,
   Che declamando van lungo la via .
Con motti ora insolenti, ed or gentili
   Van censurando i veri dotti, ond 'essi
   Sembrino dotti, e in osservar sottili .
Sono da invidi 'ancor vinti ed oppressi
   Regi, Ministri, sacerdoti, e frati,
   Che veggio incrudelir contro sè stessi .
Quei, che nel fango son vigliacchi nati,
   E nell 'obbrobrio vivono, incapaci
   D 'alti pensier, tal peste anco ha macchiati
Onde li veggio lividi e mordaci
   Biechi guardar nell 'altrui fortuna
   Ed insultando diventare audaci .
Molte la terra nel suo grembo aduna
   Di queste invidiose anime prave,
   Degne dell 'infernal cupa laguna
Per gl 'invidi maligni un carco grave
   E' il bene altrui, e sentono nel seno
   Pel male degli altri un giubilo soave .
Strugge d 'invidi 'ancor crudo veleno
   Quella modesta timida donzella,
   Che il fresco aspetto non ha bello appieno :
Bieca riguarda or questa donna, or quella,
   E dentro il petto si consuma e rode ;
   Perchè fra tutte, ahimè ! essa è men bella
Freme quell 'altra che seguir le mode
   Non puole, onde adornarsi, e la civetta
   Facendo, aver da mille amanti lode .
E dell 'invidia l'atra peste infetta
   Quell 'altra, che frequenta i confessori .
   Ed uno sposo da gran tempo aspetta,
Del talamo vicin sente gli odori,
   Ond 'ella geme, e si rattrista in petto ;
   Chè più felici son d 'altra gli amori .
Che più dico di un volgo maledetto ?
   Son gli invidi, misantropi cattivi,
   Che d 'odio infame il cor tengono infetti .
Contro sè stess 'incrudeliscon vivi,
   E dopo morte avran di Furie il morso :
   Onde lor giova udir : Di senno privi,
Il cane abbaia, e fa la luna il corso .

 



   

17/11/11

GOLA 5° di Leonardo Mazza da Bocchigliero


http://digilander.libero.it/onismazz/la%20news.htm
Continuiamo la pubblicazione dei vizi capitali di Leonardo Mazza da Bocchigliero, lettura non facile, leggere oggi queste cose non è per tutti, ma tutti possono leggerle, ma non capirle, a gentile richiesta noi andiamo avanti, per soddisfare le richieste avute, un grande e affettuoso saluto e un grazie di cuore a Mariella, la mia compagna, che con passione, affetto e amore mi aiuta in questo lavoro.
Buona lettura

I GOLOSI


" Come quel cane , che abbaiando agugna,
   " E si racqueta poi che il cibo morde ;
   " Che solo a divorarlo intende, e pugna .
In simil guisa veggiarn le lorde
   Facce di quei, che dalla gola vinti
   Tengono l' alme alla ragione sorde .
Essi da impulso bestiale spinti,
   Volgono intorno l' affamata sanna,
   Quai lupi, che gli ovili hanno precinti :
Per acquistar la preda ognun si affanna,
   E gira il guardo cupido, ed avaro,
   Finchè il pastore sonnacchioso inganna .
Hanno i golosi fatto un idol raro
   Del cibo, e a lui volgend' ogni lor cura,
   Solo il ventre per essi è il Dio più caro .
Solleciti, li vedi e con premura
   In cer' andar di delicate cene,
   Il cui profumo l' intellett' oscura .
Alimentar li vedi le murene,
   Crescere cervi, ed educar falconi,
   Che in aurei lacci quel garzon ritiene,
Dagl' Indi, dagli Egizii e dai Sidoni,
   Vengono spesso gli odorosi unguenti .
   Di cui le mense fuman dei ghiottoni .
Del pepe, del garofano già senti
   L' odor, della cannella la fragranza,
   Che fan venirti dolci svenimenti :
E vedi sibaritica pietanza
   Di Siria cuoco preparare intento,
   L' oro sciupando di regal possanza .
Sicchè gli averi del Signore a stento
   Ponno bastare a splendida cucina,
   Primo pensier di lui, cura e contento .
Sollecito lo vedi la mattina
   Gli ordini dare a cuochi, e servidori
   E chi al macello andar, chi alla marina :
Ed in diversi preparar sapori
   Vedi giovenche di Sorrento, e il pingue
   Appulo agnel dai candidi colori .
Vedi i lacerti preparar, le lingue :
   E del famoso golfo tarantino
   L' ostriche ancor sua voglia non estingue :
Nè le silane trotte, o il latticino
   Del calabro pastor, nè il buon Falerno .
   O il cecubo famoso antico vino .
Ecco, alla mensa di costui discerno
   Triglie dorate ; e perle d' Oriente
   Ornar di pesce insipido l' esterno .
Di Malaga, Lunella, e di Charente
   Vedi i famosi vini, e del muscato
   Siracusano anco l' odor si sente .
Che più ? L' impegnan questo a far beato
   Soltanto il ventre in cui ripongon tutto
   Della vita presente il dolce stato :
E credon che lo spirito, lordo e brutto
   Di tanti vizii, quando l' uom sen muore,
   Torna con lui nel nulla anco distrutto :
Onde, insensati ! sieguono l' errore
   Di quel famoso porco di Epicuro,
   Che del presente avea soltanto amore .
E non credendo al secolo venturo,
   Edamus, et bibamamus, dicea ;
   Chè l' avvenire a noi si affaccia oscuro .
Questa è la vita della gente rea .
   Che di coscienza ogni rimorso attuta,
   E dei delitti suoi ella si bea .
Per essi la materia è sol creduta,
   Ed infangati in mille atre sozzurre,
   Rendono l' alma alla ragione muta .
Sieguono questi le dottrine impure
   Di Sfero, di Lucrezio, e di Fenone,
   Di Sesto, e di Leucippo le brutture
Peggio ! Diventan figli di Pirrone,
   E convertiti in sonnacchiosi bruti,
   Guardano biechi e Socrate , e Platone
Da questo vizio infetti anco i chercuti
   Spesso veggiano, e di beati porci
   Vita manare in odorosi luti .
S' impinguan questi, onde impinguare i sorci ;
   Chè nella tomba tutto giaà finisce,
   Onde, o goloso invano ti contorci .
Se per lauto banchetto il cor gioisce,
   E il tutto mette in disperat' oblio,
   L' aspetto della morte lo atterrisce .
Nè più lo aiuta del suo ventre il Dio,
   Che stupido, corrotto e incostante
   Sparisce , e paga di sue colpe il fio :
Vedi colà quel giovine furfante
   Girovagnando andar per le cantine
   Quel impudico stupido baccante ?
Un vil goloso egli è, che mai confine
   Mette all' orribil vizio della gola,
   Infin che giunge a disperato fine .
Ed ubbriaco diventato, invola
   Alla ragione il freno, ed in sè stesso
   D' essere una gran bestia si consola .
Dai debiti lo vedi un giorn' oppresso
   Andar lungo le strade camminando
   Con volto malinconico, e dimesso .
E spesso l' odi andar bestemmiando
   Il vizio, che gli fè tutto finire,
   Beni, ragione onor gozzovigliando.
Sicchè lo vedi in ultimo fuggire
   Del dì la luce, e all' ombra della notte
   In rubbacchiare altrui mostrar l' ardire .
Che più ? vi son di femmine corrotte,
   Che dalla gola dominate e vinte,
   Ad impudico amor vengon sedotte .
Onde le vedi di vergogna cinte
   Andar pei trivii, e pei quatrivii a tutti
   Bellezze offrire di pudor non tinte .
Quei magistrati ancor, che lordi e brutti
   Son di tal peste, in sè timor non hanno
   Se gli statuti vengono distrutti .
Per appagar lor vizio, essi l' inganno
   Adoprano in segreto, ed in palese,
   E quei son pochi che giustizia, avranno .
E che direi, se a raccontar le offese
   Io mi farei di frati, e sacerdoti,
   Onta e vergogna delle nostre chiese ?
Forse son questi al vero Dio devoti,
   Quando del ventre all' insensato Nume
   Porgono sempre i loro incensi e voti ?
Oh tempi antichi ! Oh candido costume !
   Quando mettean le leggi angusto freno
   A chi smarria della ragione il lume .
Taccio di Fabio, Quinzio, e Labieno,
   Nè d' altr' illustri temperant' io dico ;
   Sol di Lunello mio ricordo appieno .
Questi della virtù fatto nemico,
   Ed in oblio mettendo la sua gloria,
   Di crapole vivea soltanto amico .
Di Cizico egli oscura la vittoria ;
   Di Sinope, di Nisibi, e Trigane
   Sembra che più non parli la sua storia .
Oh la soltezza delle menti umane !
   Che vengon dall' Apostolo chiamate"
   Stupide, cieche, misere profane !
Quando le vede al ventre umiliate .

14/11/11

Democrazia e non Oltre

Le scene a cui abiamo assistito in questi giorni non sono degne di un paese civile, la nostra società non è evoluta, e soprattutto non ha una democrazia compiuta, moderna che sia forte dell'esperienza del passato, della storia dellla nostra martoriata Repubblica. I professionisti dell'informazione, pur di fare notizia si avventurano in paragoni assurdi, in voli pindarici che fomentano e aizzano la gente comune, purtroppo eccessivamente influenzabile, allo scontro e non al sano confronto, anche aspro, ma che rispetti l'altro... e non mi riferisco a nessuno in particolare, vorrei fare solo un inciso sulla Democrazia, che rimane un chiaro punto di riferimento e di orgoglio per i tanti che ne conoscono il vero e profondo significato. La crisi è della nostra povera e indifesa moneta, l'Euro non è protetto come altre monete mondiali, non ha una banca forte che possa difenderne le speculazioni planetarie, e  quindi non possiamo festeggiare con lo spumante come se si fosse vincitori, così facendo perde l'Italia, che deve farcela come ha sempre fatto, con sacrifici, tagni, ritorno ad un periodo di austerità e sobrietà che può anche far crescere una cultura collettiva migliore, anche le forze polite possono maturare una capacità di ascolto e compromesso che porta ad una politica meno gridata, dai toni forti e non personali, che ledono il buon nome dell'Italia, meditate gente meditate

11/11/11

Alba di Novembre

Autunno in Sila Calabria
Abbiamo ceduto al richiamo di facebook, desiderosi di farci conoscere da più persone, per condividere con loro i nostri progetti, le nostre ansie, le nostre paure, le nostre gioie e insieme costruire un paese migliore, costruire una nuova coscenza collettiva che ci porti verso albe serene e un mondo migliore, abbiamo ritenuto giusto crearci una pagina su questo grande Hotel, dove ci si conosce, si condividono tante piccole  e grandi cose, il tutto è nata da alcuni adesivi, che ci hanno regalato, con la scitta"bocchiglierooltre.com". Un giovane,che è venuto a trovarci,ci ha sugerito di creare un accaunt e isciverci a facebook, detto fatto... chi vivrà vedrà. Vorremmo iniziare con una poesia che fa bene all'anima, ma anche al corpo, buona lettura. Dimenticavamo di chiedervi di venirci a trovare anche su facebook.

Luna di novembre

Tratta da    www.ansa.it
Un tramonto che passa inosservato
un albero spoglio che si staglia gelato,
un cielo pumbleo appena pennellato
dai tenui colori d'un tramonto,
si muta in visione senza pari,
se un raggio di luna
fievole e pudico
s'insinua nell'animo in penombra.
Gli occhi socchiusi
si allargano
e vedono la strada che cammini
in un'altra dimensione.
E là,
dove ostacoli ti hanno fermato
e fatto il capo piegare,
scompaiono
come vallate nella nebbia.
Senti che gli alberi spogli non son morti
ma solo addormentati
e che presto si desteranno
per dare la bellezza socchiusa nella linfa:
purezza di nuovi fiori filtrati dal letargo,
a quel raggio di luna a quel tramonto
e ti riporta all'alba d'un nuovo domani.
In un nuovo cielo: alto, azzurro, caldo.
Mi piace la luna di Novembre
e mi piace Novembre, gli alberi ed il suo cielo
che nella loro mesta delicatezza
riescono a parlarmi sottovoce.
Mi piace la luna di Novembre che sfrangiando il cielo
mi allunga le braccia
e mi prende per mano
per fare un pezzo di strada del mio andare,
in compagnia.

                                              E. Benincasa        da: "Tra il vento e la pioggia".

07/11/11

L' IRA 4 ° di LEONARDO MAZZA da Bocchigliero

Continuiamo la pubblicazione dei vizi capitali, qualcuno ci chiede di pubblicarli, ci stiamo pensando, vorremmo pubblicare tutto il libro di Leonardo Mazza da Bocchigliero. Vorremmo che le istituzioni prendessero atto di questo personaggio, e dedicare a lui una via, un luogo culturale, una piazza e comunque facciano conoscere alla popolazione, vicina e lontana, un personaggio di questa caratura e a tutti gli uomini di cultura.
Buona lettura.



 "  IRA  "

Vedeste mai la ripida montana
   Scender gonfio impetuoso fiume
   L' onde frangendo in romorosa frana ;
Qual nunzio della giusta ira del Nume
   Il piano inonda, e gli argini trapassa
   Tra il cup' orror di tempestose brune ;
E mentre il tutto nel passar fracassa
   Giunge superbo in tempestoso mare,
   Dove confuso la possanz' abbassa ?
Ebben ! si puole a questo assimilare
   L' Ira, che ancor nall' uom fa cruda guerra,
   E per diverse vie lo fa peccare .
Ognun, chi più chi meno in questa terra
   Ne sente la fatal cieca possanza
   Onde fra l' ombra della colpa egli erra
Vedi colui, che mostra la baldanza
   Di un Rodomonte, e la vil plebe abbaglia
   Con di parole assai vana iattanza ?
Un iracondo egli è, che alla canaglia
   Solo appartiensi della gente vile,
   O d' ignoranti belve alla ciurmaglia .
Quegli, che tiene in petto irosa bile
   Il vedi ora superbo e minaccioso,
   Or vigliacco pregare in atto umìle ;
Che qual torrente altiero, impetuoso,
   E' l' iracondo, che lo sdegno attuta,
   Quando s' incontra in cuor più burbanzoso .
Si adira il Prence un dì, perchè temuta
   Non è la sua possanza, o forse ancora
   Perchè sua volontà d' altri si muta ?
Ebben ! Sia buono, e il suddito lo adora ;
   Sia giusto e nello avere i saggi allato,
   Tutto cammina dritto, e dentro, e fuora .
Ved' il Ministro, il degno Magistrato
   Rendersi schiavo dell' irosa peste,
   E sempre star col volto corrucciato :
Onde chi a lui ne va con umil veste
   Ad implorar giustizia, egli discaccia
   Come figliuol di genti assai moleste :
Ed all' insulto aggiunge la minaccia
   Sicchè ad un tale spirito bizzarro
   Non osa l' infelice alzar la faccia .
Del Campidoglio i mostri a voi non narro,
   Caligola, Neron Domizio, e Varo,
   Onde intento più in là l' occhio non sparro
Ridir le cose antiche il mio pensiero
   Non è, ma solo il secolo presente
   A me si affaccia minaccioso e fiero :
E veggio baldanzoso ed insolente
   Renders' il ricco, il dotto, l' ignorante,
   Il nobile, la plebe, il vil pezzente .
Vedi molesto, farsi ed arrogante
   Quell' iroso dottor di medicina,
   Che Ippocrate disprezza, e fassi amante
Della funeria mesta Libitina ;
   Onde infelice chi v' incappa ! Spento
   Egli cadrà la sera, o la mattina .
Veggio adirarsi ancora ogni momento
   Quello di legge dottorello arguto,
   Che si stropiccia sonnacchioso il mento .
Ei di Cuiacio polveroso e muto
   Tiene il volume nello studio, e svolge
   Lunghe memorie con un guardo acuto
Di tanto in tanto il guardo egli rivolge
   Alle Pandette ; il Codice non cura
   E del cliente suo poco si accorge,
Onde può fare al certo la sua ventura
   Chi a lui si affida . La difesa è forte
   Se un iracondo ne ritien la cura !
Ed è felice ancor di quei la sorte
   Che ad iracondo giudice si affida
   Alle sentenze od ignoranti o torte .
Egli si sdegna, e minaccioso sgrida,
   E rischia i dritti d' innocente oppresso
   Forse ai delirii di una mente infida
E ancor degli altri magistrati appresso
   Dire vorrei gli errori ad uno ad uno
   Se vengon d' ira molestati spesso .
Ma su le colpe lor mettiamo un bruno
   Velo di oblio ; che forse ognun si emenda
   Quando si accorge che non l' ode alcuno .
Ecco al mio sguardo ancor si offre tremenda
   Ciurma di vili, ed iracondi spirti,
   Che il mondo infetta di sua peste orrenda .
Vorrei più cose, alma iraconda, or dirti
   Di quest' insani, e se parlar potrei,
   Certo farei di tanti error stupirti .
Tu che fremendo, dei pensier più rei
   Pasci la mente, e gonfio tien' il petto
   D' ira, di sdegno, e di furor, chi sei ?
Un atomo tu sei, ombra, od insetto
   Che sperde il vento, e fa tornar nel nulla
   Donde il trasse di Dio l' alto intelletto .
A te che tutto sprezzi, entro la culla
   Sorrise il niente, e l' accompagna bieco
   Fino alla tomba, che ogni fasto annulla
Solo abitar dentro selvaggio speco,
   Nido di belve, l' iracondo è degno,
   Il suo furor portandone con seco .
Di un' alma vil soltanto è tristo segno
   L' ira insensata ; che nel cor si accende
   Dei Grandi sol magnanimo disdegno .
Della possanza imperial si offende
   Il Guelfo, e freme il Ghibellino ardito,
   Onde son l' ire delle sette orrende .
Vedi sdegnoso ancor morders' il dito
   Quel forsennato di Lutero, e poi
   Batter la guancia, dal furor tradito .
Taccio degli altri furibondi eroi,
   Che mostran l' ira pur con modi strani,
   E veggio altieri passeggiar fra noi
Sono di questi gl' intelletti vani,
   Vile lo sdegno, e quindi giova dire :
   " Andate via colà con gli altri cani !
Non atterrisce, no quel folle ardire,
   Che voi mostrate in orgogliosi detti,
   Che fan villana plebe in sè stupire
Sono iracondi assai quei giovanetti,
   Che sol di donna seduttrice in seno
   Tutti concentran gli amorosi affetti .
Allor che gelosia sparge il veleno
   Nel cuor di questi, che non han mai pace,
   L' ira non sente di ragione il freno
Onde alla Luna parlano, che tace,
   Che dei delirii loro in sè si ride,
   Quando li vede immersi nella brace .
E lo sfrenato giocatore uccide
   L' ira che il cor gli strugge, allor che molto
   Egli si fida delle carte infide .
Strilla bestemmia, e quasi avvien che stolto
   Egli diventi ; chè fortuna ingrata
   In altri luoghi ha suo favor rivolto .
Allorchè la sua moglie d' altri amata
   Vede uno sposo, lo consuma l' ira,
   Ma poi si placa se la vede ornata :
E gelosia sprezzando, egli sospira
   Novellamente per l' infida : i pregi
   Della bellezza sua stupido ammira .
Bontà non è che la memoria fregi
   Di tanti vili, neghittosi, e tristi
   Degni di oblio soltanto e di dispreggi .
Si adira il mercator ; perchè gli acquisti
   Vengono meno della sua fortuna,
   Di ladronecci e furberie frammisti .
Gira su l' onde, sue ricchezze aduna,
   Infin che il soffio della sorte avversa
   Poi le ritoglie, e sperde ad una ad una
L' ira del cacciator non è diversa
   Quando per entro alla boscaglia insiegue
   Libera belva dal timor dispersa
Ciurma di veltri, o di mastini siegue
   Quella infelice : ed ei su l' orma incerta
   Ansando forte il suo cammin prosiegue .
Oh la grand' ira della gente inerte !
   L' ira di Bruto sembra, o di Gregorio
   Anime grandi alle bell' opre esperta ?
Sembra lo sdegno dell' Eroe Sertorio,
   Di Scevola, Camillo, e di quel dotto
   Grande orator di Arpino, e di Vittorio ?
E' l' ira un mal, che il mondo ha già corrotto,
   Onde di oblio si spandi eterno velo,
   Dicendo a quei che n' hanno il cor sedotto :
Non isperate mai veder lo Cielo .

   

05/11/11

NOVEMBRE

Silenzi...

Assorto, lontano
rincorrendo ricordi
sbiaditi, ma ancora
vivi, presenti come
incubi latenti in
costante attesa di
vivere felice.
                             Piero Benincasa

30/10/11

LA LUSSURIA 3° di Leonardo Mazza

  Ebbene, questo è il terzo vizio capitale, la lussuria, ancora grazie a Mariella, la mia compagna, che riesce a sorprendermi spesso, forse anche per questo gli voglio tanto bene.              

 " LA  LUSSURIA"

Qual arabo destrier, che a briglia sciolta
   Scorrendo i campi, sparsa la criniera,
   Non più del cavalier la voce ascolta,
Veggo la gioventùde ardita e fiera
   Scorrere i campi d' impudico amore
   Con in volto la benda, o la visiera ;
E da errore correndo in altro errore
   Arrogante, la veggio, e baldanzosa
   Tentar di caste donne il disonore.
Quella, che veggio molto ardimentosa
   Donna all'aureo scarmigliato crine,
   Dall' occhio azzurro e volto di una rosa ;
Mille condurre a disperato fine
   Giovani sconsigliati, a cui soltanto
   Piace lo sguardo d' ingannevol Frine .
Chi è mai ? La voce sua somigli ' al canto
   Delle tre vaghe incantatrici dive .
   Che di sprezzare Uliss' ebbesi il vanto,
Quando giungendo alle funeste rive,
   Ai suoi compagni, nel fatal periglio,
   Ei fè le orecchie dell' udito prive :
Lussuria è dessa ; il cui possente artiglio
   Tutti a sè tira quei, la cui ragione
   Offusca della Dea di Guido il figlio .
Se con ragione Amor viene a tenzone,
   Quella è già vinta, ed avvilita giace
   Sommessa al suo talento e passione;
Chè dove di lussuria arde la face
   Regnan capricci, inganni, e furberia,
   E un cuor corrotto in sè non ha mai pace .
Chi veggio camminar lungo la via
   Dei Lupanar' infami, ove in sozzura
   Mena una vita vergognosa e ria ?
Quegli, cui di lussuria la lordura
   Imbratta il cuore, simile ad un bruto,
   Che di vil fango cuopre la bruttura .
Vedi quel giovinetto andar perduto
   Dietro le tracce di una donna imbelle,
   Da cui dipende stupefatto e muto ?
Osservalo adorar due luci belle,
   E nel delirio suo, nei suoi tormenti
   Narrar le pene sue anco alle stelle .
Lo vedi esposto alle pioggie, ai venti ;
   E per l' orme seguir della sua amata
   Sprezzare i geli, e i raggii più cocenti
Come colomba dal desio chiamata
   Ved ' giuliv ' andar quella fanciulla,
   Che da mille amator viene adorata :
Ella di tutti ride, e si trastulla,
   E mentre oggi ad un sol porge la mano,
   Diman lo immerge in disperato nulla :
Onde il suo cor non è che un teatro arcano :
   E quei, che ciecamente a lui si affida
   Per discoprirne il ver fatica invano .
E' un pregio della donna esser infida,
   Ed il suo cuore offrire a mille amanti,
   Onde un pazzo è quell' uom, che in lei si fida .
Andate, o cicisbei vili e tremanti
   Alle fanciulle tutte a far la corte,
   Con gemiti, sospiri, e tristi pianti .
Sono così possenti le ritorte,
   Con cui son tutti i vostri cuori avvinti,
   Che scioglier li potrà solo la morte .
Rassomigliate a quei, che già sospinti
   Nell' isola di Circe, ammaliati
   Furono tutti, in vili porci finti .
Giovani guardo, e vecchi affascinati
   Da due begli occhi, o da purpuree gote
   Girovagando andar come impazziti .
V' ha chi le pene sue fa chiare, e note
   Ad una vecchia, schifiltosa e brutta,
   Pel desiderio di una pingue dote :
Ed ella il crede, e si abbellisce tutta
   Come fanciulla nella verd ' etade,
   E la canizie sua crede distrutta .
Ed un canuto vecchio alla beltade
   Vedi, di ardita vaga giovinetta,
   Fare la corte, ed implorar pietade :
Lo accoglie sorridento la furbetta,
   E dopo avergl' in sen sparso il veleno
   Di un cieco amor, superba lo rigetta .
Vedi quell' altro perdere il sereno
   Del suo bel volto, e un cuor sentimentale
   Quindi affettar, con la speranza in seno
D' esser' amato da colei, la quale
   Egli soltanto in suo pensiero adora
   Senza svelarle l' amoroso male .
Ecco venir quell' altro con sonora
   Voce, a vantarsi degli amplessi, e baci
   Di donna bella, come vag' aurora :
E a lei la stima con i suoi mordaci
   Detti macchiar, senza che mai la onesta
   Donn' ascoltato avesse i sensi audaci !
Dell' ideale amante, il qual calpesta
   L' onore altrui, per comparir galante,
   E alzar fra i cicisbei fiero la testa .
Chi mai nell' osservar sì fatte, e tante
   Comiche scene riterebbe il riso
   In faccia un amator così furfante ?
Quegli, che porta la baldanza in viso,
   E un cuor vigliacco dentro il sen rinserra,
   Sprezzato è delle donne, oppur deriso .
E quegli poi che abbassa infino a terra
   L' umile fronte, e prega, e piange e geme
   Ha del sesso gentil più dura guerra .
Esso lo incalza, lo malmena e preme,
   Finchè lo spinge a rie stranezze vili,
   Che di delitti son funesto seme .
Tremate adunque, o cicisbei gentili,
   Quando alle donne troppo vi affidate
   Con modi ora superbi, ed ora umìli ;
Chè quando voi di amor più vi beate,
   Di gelosia vi rode orribil tosco,
   Onde nell' odio dall' amor passate .
Però molti amatori ancor conosco
   Che gelosia non hanno, e per vedere
   Nel cuor di loro donne il guardo han losco :
Non vogliono d' inganni essi temere,
   E credono che sia sola infedele
   Quella, che veggono in bordel sedere .
Vana lusinga ! Il ritrovar fedele
   Un cuor di donna è mal tentata impresa ;
   Ma quel dell' uomo ancor spesso è crudele !
Quella, che veggio andar sempre alla Chiesa,
   E frequentando ancor la penitenza,
   La veggio a piè del sacro altar prostesa .
Ha di lussuria vinto la potenza ?
   O d' amorosa fiamma un sol desio
   Non le rimorde in sen la sua coscienza ?
Nol so.... Quel confessor, che fa di un Dio
   Quaggiù le veci, al cuor della innocente
   Disvela un suo pensier malvaggio e rio ?
Egli la forza di lussuria sente ?
   Sollecita, corrompe, alletta, inganna ?
   Ha un cuor di sacerdote, o di serpente ?
Nol so.... Ma gli occhi di ragione appanna
   Amor, che a nullo amato amar perdona .
   E ovunque impera da superba scranna .
A lui ciascuno il cuor cieco abbandona ;
   Per lui profuma ognun la bianca chioma,
   E tra vergogna, e onor dubbio tenzona .
L' alma di ognun da passioni è doma ;
   Nè v' ha chi possa dir con volto ardito
   Da non portar di colpe orribil soma .
Siegue la capra il citiso fiorito,
   Siegue l' agnello il lupo, e ancor ciascuno
   Siegue del cor l' istinto, e l' appetito .
Dunque dobbiam' odiar dirà qualcuno
   Le donne, e star com' apati o macigni,
   Che in sè non hanno sentimento alcuno ?
No ! Il far verso le donne i visi arcigni
   E' un gran delitto, ma peggior è il danno
   Se noi saremo in lor troppo benigni .
Son degni di biasmo quei, che fanno
   A somiglianza ormai dei cagnolini,
   Che dietro al cibo ghiotti se ne vanno .
Lo sono ancora quei, che i damerini
   Fanno dei trivii, pei quatrivii e poi
   Vendon ciarle senza aver quattrini .
Degno di biasmo e quel, che i giorni suoi
   Passa fra i sozz' immondi lupanari
   Con tutti gli altri effeminati eroi :
E poco bada a disbrigar gli affari
   Di sua famiglia : oppur del suo maestro
   Non ode i cenni, e fugge gli scolari .
Questo dei cicisbei studenti è l' estro :
   Viver nel fango d' impudici amori,
   E i libri aprire allor che n' hanno il destro ;
Onde gli vedi giungere agli onori
   Del dottorato delle bestie, e dopo
   Mieter venerei vergognosi allori,
Unica meta, ed onorevol scopo !
 

26/10/11

Frutti...invernali!..

Quanto la stagione cambia e i frutti prodotti dagli alberi finiscono, solo alcuni restano per aiutare gli animali a sopravvivere durante il lungo inverno. Questo, nella foto, è uno dei tanti, ma non ne conosciamo il nome, di certo non è una pianta molto conosciuta. Se vi incuriosisce provate a rispondere, abbiamo fotografato l'albero intero (nelle foto:" Ottrobre luci e colori.."). Molti colleghi blogger partecipano a premi e gare per farsi votare, noi abbiamo scelto una linea diversa, e cioè quella della condivisione senza secondi fini..., liberi di essere chiari e non avere vincoli o pubblicità, per pochi millesimi di euro, non abbiamo velleità di sorta, non cerchiamo la gloria, non siamo degli eroi, non siamo dei briganti (vorremmo esserlo), non ci sentiamo i detentori della verità.... ma alcune cose vanno dette, scandagliate, anche in maniera certosina, per poter comprendere e approfondire le nostre conoscenze. La politica, come ogni pezzo che compone la società, ha bisogno di pulizia mentale, chiarezza negli obiettivi, tenacia nel perseverare, quando il caso lo richiede, fiduciosi ed entusiasti per operare secondo scienza e coscienza, e non avendo al primo posto il guadagno fine a se stesso, che può, si arricchirci economicamente, ma inpoverirci dal lato umano. Vorremmo, per questo e tanto altro, condividere con voi una poesia in dialetto calabrese, che a noi è molto cara. 

                                                            RICCHIZZA E PPEZZENTIA


'Un ti cridìre ca si ffattu riccu,
mo chi ti vidi quattru sordi e parte;
'un sù lli sordi chi fanu 'a ricchizza,
ca chissa ccu lli sordi nun s'accatte.
I sordi chi t'ha fattu sù mmunnizze
ch'eddunne sù benute si nni vanu
lassannute kjù povaru e cum'ere:
povaru e kore, povaru e penzieri,
povaru e 'na ricchizza ch'un canusci
e cch'è chiamata Donna Gentilizza.

                                                      E. Benincasa
                                Tratta da:"Liriche in vernacolo calabrese" Edito da Pellegrini 1981